Negli ultimi decenni l’uso (ed abuso) di antibiotici, soprattutto di molecole ad ampio spettro d’azione, la somministrazione di dosaggi subottimali e l’impiego in prima linea di molecole con elevata capacità di generare resistenze, hanno determinato l’insorgere delle antibiotico-resistenze. In questi anni, infatti, gli antibiotici sono stati impiegati massicciamente, non solo per terapie sugli esseri umani, ma anche in ambito zootecnico ed animale e nelle produzioni alimentari, tanto da determinare la selezione di ceppi microbici che hanno acquisito resistenze multiple, rivolte cioè verso molte (se non tutte), le famiglie antibiotiche.
Quando si parla di antibiotico-resistenza e di batteri multi-resistenti, i temuti “superbugs”, si pensa spesso a nuove malattie e/o pandemie che si diffondono senza controllo. In realtà la vera minaccia è meno eclatante, ma più subdola, in quanto si annida proprio nei luoghi di cura, nei nostri ospedali.
Le infezioni nosocomiali resistenti a tutti i principali trattamenti antibiotici sono purtroppo in rapido incremento. I resoconti più recenti del CDC riportano circa 2 milioni di pazienti che contraggono una infezione, sostenuta da batteri resistenti, associata all’assistenza sanitaria, di cui quasi 23.000 muoiono a causa dell’infezione contratta. I patogeni implicati, raccolti sotto l’acronimo “ESKAPE” sono Enterococcus faecium, Staphylococcus aureus, Klebsiella spp., Acinetobacter baumannii, Pseudomonas aeruginosa, Enterobacter spp., ma questa lista è certamente riduttiva e altre specie microbiche si stanno rapidamente aggiungendo.
Nel caso della tubercolosi i ceppi batterici multi-resistenti causano già circa 200.000 morti l’anno, principalmente nei paesi poveri. Il Neisseria gonorrhoeae, un altro microrganismo che ha sviluppato resistenza agli antibiotici, in origine era sensibile alla penicillina. Quando l’efficacia di quest’ultima ha cominciato a ridursi, è stata sostituita con le tetracicline e successivamente con i fluorochinoloni e quindi con le cefalosporine. Al momento attuale alcuni ceppi risultano sensibili solamente ad una combinazione di ceftriaxone (una cefalosporina) ed azitromicina (un azalide).
Se poi si considerano non solo gli antibiotici, ma anche i farmaci contro parassiti, quali il plasmodio della malaria, e virus, quali l’HIV, il problema si moltiplica, in particolar modo nei paesi poveri. Per la malaria il problema delle resistenze si era già presentato in passato, ma all’inizio del nuovo millennio l’utilizzo di un nuovo farmaco, l’artemisina (v. articolo), sembrava aver segnato una svolta. Purtroppo, però, nuovi ceppi resistenti si stanno già presentando e lo stesso accade per le associazioni farmacologiche utilizzate dagli inizi degli anni ’90 come prima terapia contro l’HIV. Attualmente tali resistente possono essere affrontate con altri farmaci, tenuti in riserva per tale scopo, ma ciò rende la terapia molto più complessa e costosa.
I meccanismi dell’antibiotico-resistenza
Gli antibiotici nella maggior parte dei casi uccidono i batteri bloccando la sintesi di nuove proteine oppure interferendo con lo sviluppo delle pareti cellulari. Ogni mutazione nel genoma dei batteri che rende meno efficaci queste azioni del farmaco va dunque a beneficio di tutti i batteri che la posseggono, e di conseguenza tende a diffondersi in tutta la popolazione. Il passaggio dei geni modificati da un batterio all’altro avviene molto rapidamente, attraverso i plasmidi, piccoli filamenti circolari di DNA che possono essere trasferiti facilmente non solo da un individuo all’altro, ma anche da specie a specie, e lo stesso avviene per i geni che rendono più virulenta una patologia.
Tra i meccanismi dell’antibiotico-resistenza sono da annoverarsi quelli che producono enzimi che idrolizzano gli antibiotici beta-lattamici (beta-lattamasi) o gli aminoglucosidi (enzimi acetilanti, adenilanti e fosforilanti), ma rivestono importanza anche altri sistemi quali pompe a efflusso, modificazioni di bersagli molecolari o attivazione di vie metaboliche alternative. Queste mutazioni comportano, però, per il microrganismo un costo in termini di energia e materiali (anche il solo copiare il DNA del gene della resistenza impone un carico metabolico!), il che implica che i meccanismi di resistenza vengono indotti a svilupparsi solo in presenza di uno stimolo attivo, quale la presenza di un farmaco e, quindi, se si espongono i batteri ad una minore quantità di farmaci, la resistenza dovrebbe ridursi.
A questo punto entra purtroppo in gioco un importante e diffuso malinteso per cui si tende erroneamente a ritenere che sia la persona che assume il farmaco a diventare resistente ai suoi effetti e non i microbi! Una ricerca pubblicata lo scorso anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) riporta che i tre quarti della popolazione nei paesi a medio e basso reddito fraintendeva il problema in questo modo e un sondaggio condotto nel 2015 dal Wellcome Trust riportava la prevalenza di un analogo fraintendimento in Inghilterra. Questo erroneo convincimento ha gravi conseguenze sul piano pratico in quanto solo se si è convinti che la resistenza sia un attributo del batterio, utilizzare i farmaci solo al bisogno, ma in modo risolutivo, ha un senso. Se, invece, si crede erroneamente che la resistenza sia un attributo delle persone non ci si farà scrupolo ad assumere antibiotici, nella misura in cui sembrano produrre un qualche effetto e si avrà la tendenza a sospenderli quando i sintomi si riducono, piuttosto che prolungarne la somministrazione fino a quando i batteri sono stati del tutto eradicati. Questi problemi sono particolarmente acuti laddove gli antibiotici possono essere acquistati facilmente, come farmaci da banco.
Presumere che le campagne rivolte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica possano essere risolutive è assolutamente ottimistico. Nel 2013 un paper pubblicato sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy ha stimato che circa i due-terzi dei pazienti che non avrebbero dovuto prendere antibiotici li avevano assunti ugualmente. Esiste, inoltre, il fenomeno per cui il paziente, una volta che si è recato dal medico, “pretende” (pester effect) di andar via con qualche terapia significativa, per cui se ha un mal di gola, probabilmente di origine virale, premerà per aver prescritto un antibiotico (non effettivamente necessario) che prevenga ogni possibile complicanza.
Ad aggravare problema concorre l’utilizzo degli antibiotici negli animali d’allevamento, anche perché (per ragioni ancora non del tutto chiarite) si è visto che il bestiame trattato con antibiotici ingrossa più rapidamente. I farmaci mescolati ai mangimi passano, attraverso le deiezioni animali, nel suolo e nei corsi d’acqua e ciò alimenta le resistenze, perlopiù in patogeni non umani. Tuttavia, come abbiamo visto, i meccanismi di resistenza possono passare facilmente da queste specie a quelle in grado di determinare malattie nell’uomo. Spesso, tra l’altro, gli allevatori somministrano proprio quegli antibiotici che i medici tengono in riserva per trattare le infezioni nosocomiali resistenti, come la colistina. Questo antibiotico non è molto utilizzato sull’uomo perché può avere effetti dannosi sui reni, ma costituisce la “cartuccia di riserva” da utilizzare contro Acinetobacter, Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella and Enterobacter. Lo scorso anno in Cina sono stati isolati batteri dotati di geni resistenti alla colistina in alcuni pazienti ospedalieri e si pensa che la causa sia proprio l’utilizzo di colistina in ambito agrario.
Il costo di bandire del tutto l’utilizzo di antibiotici come stimolatori della crescita è stato stimato da uno studio del governo americano in meno dell’1% di prodotto e l’Unione Europea ha già adottato questo bando.
Intanto sul fronte della ricerca di nuovi agenti antibiotici, esiste una pipeline di circa 40 potenziali nuovi prodotti in diverse fasi di sviluppo, dei quali solamente una frazione raggiungerà il mercato e richiederà comunque cospicui investimenti per completare la fase della sperimentazione clinica sull’uomo.
Alcune importanti raccomandazioni che nell’immediato potrebbero essere applicate per contenere le resistenze associate a infezioni nosocomiali sono:
1) promuovere prevenzione e controllo, limitando il cattivo uso degli antibiotici e migliorando le pratiche di infection control;
2) adottare rigorose pratiche di igiene delle mani;
3) mantenere un alto livello di vaccinazioni nelle popolazioni;
4) utilizzare una diagnostica microbiologica nel prescrivere l’antibiotico giusto, al giusto dosaggio e durata, nella infezione giusta;
5) introdurre piani nazionali volti ad individuare le azioni per monitorare la resistenza;
6) investire nell’innovazione diagnostica e terapeutica.
A proposito dell’ultimo punto, novità interessanti si prospettano in termini di co-optazione nella lotta contro le infezioni dei virus noti come batteriofagi, in grado di attaccare i batteri e da un innovativo strumento di editing genetico il CRISPR/Cas9, una tecnica di “editing” genetico derivata dai batteri. I CRISPR, infatti, fanno parte del sistema immunitario dei batteri e sono anche dei “redattori genetici” grazie all’endonucleasi Cas che riconosce l’RNA nel quale il DNA virale si traduce per replicarsi. L’enzima Cas si appropria di quell’RNA, così riconosce esattamente i pezzi di DNA virale e li elimina tutti. La correzione resta nel genoma del batterio e si trasmette alle cellule figlie.
Dr. Carmelo Chines
Direttore responsabile